Un sentiero di montagna e fu il paradiso terrestre. Un bosco di cerri e faggi ci avvolgeva, folto e imprevedibile, agrifogli e ginepri verde brillante, colori, odori, rumori e silenzi che seguivano il ritmo dei sentimenti, quel bosco sapeva tutto di noi, era consapevole del miracolo che avveniva in quei pochi minuti che erano per noi un tempo indefinibile, dichiaravamo la nostra resa a quel paesaggio dipinto da un pennello superiore. Come si resta folgorati da qualcuno o da qualcosa ci chiedevamo? Si precipita verso l’ignoto? Ci si imbatte all’improvviso e si vacilla, ferendoci il cuore come quando ci tagliamo? O è come rimanere per sempre sul ciglio di un aereo prima di gettarsi per il primo lancio?
In alto tra i rami apparivano squarci di cielo in cui le nuvole, in combinazione con le fronde, disegnavano forme e figure che subito si dissolvevano a causa del vento.
La luce del sole indebolita dai rami fitti, teneva in penombra un sottobosco di muschi e felci. A piedi raggiungemmo il rifugio semplice e rustico, ci parve un castello, accanto la legna accatastata per scaldare la nostra notte, alberi da frutto crescevano nel giardino. Aspettammo la fine del giorno per vagare nel verde buio e scuro, intravedemmo scoiattoli color corteccia e tracce di cinghiali, ma protagonista indiscussa era una flora densa di fruscii e ombre.
Pensammo a versi di Garcia Lorca “Vidi nei tuoi occhi due alberelli pazzi, non volli, non volli dirti nulla”. Gli unici esseri viventi oltre noi erano lucciole brillanti come diamanti, ci volavano accanto curiose, mentre tutta la vita del bosco si univa al nostro respiro, in lontananza strani versi incutevano timore, un richiamo d’amore che non attribuivamo a nessuna specie, forse era la voce del bosco, l’altra faccia della natura, quella più nascosta.
Ci assalì un brivido e ci avviammo verso casa, costeggiammo la staccionata, i nostri passi silenziosi si fecero sonori quando raggiungemmo la ghiaia bianca, non era stato tanto il buio in se a farci paura, quanto le figure prodotte dalla nostra fantasia che emergevano dall’oscurità sotto forma di animali o uomini. Tornammo con la memoria alle favole delle nostre nonne popolate di orchi, streghe, draghi e folletti dispettosi come quel bosco, pensammo alle Baccanti di Euripide avvolte nell’edera, sacerdotesse di quell’oscurità.
Quella notte mentre il mondo continuava a girare imperturbabile, noi cominciammo ad amarci, senza muovere un muscolo e non ricorderemo mai l’attimo esatto in cui è successo tutto. In quell’istante la nostra vita prese un corso diverso, non sapevamo per quanto sarebbe stato; un giorno, un anno? Andava bene così.
L’arrivo della mattina non smise di stupirci, ci affacciammo dalla finestra per sentire l’aria più pulita che mai avessimo respirato, due cervi mangiucchiavano ciliegie appena nate con movenze delicate ed eleganti come una danza. Mangiare a noi invece sembrava banale. Questo quando ci facevamo caso, ma in realtà non facevamo caso più a molto che non fosse quel paesaggio e quel sentimento tra noi.
Nel cielo stormi di uccelli percorrevano invisibili traiettorie: beccacce o tordi? Troppo lontani per distinguerli. Smettere di osservarli e assistere all’inizio di una pioggerella sottile e umida fu un tutt’uno, il bosco assetato cominciò ad assorbire l’acqua, foglie, rami e tronchi si prepararono al rito, al passaggio dalla primavera all’estate e alla fine di quella precisa condizione atmosferica.
Il cambiamento dei colori stupì, il verde smeraldo si trasformò in verde bottiglia, il verde acqua si modificò in verde muschio e il verde prato divenne verde giada. Aspettammo un tramonto di sole incendiato, una palla rosso fuoco si stagliava in un orizzonte nitido, mentre la natura si risvegliava e si asciugava.
La foresta appenninica ci aveva rapito il cuore e i sensi e ci sembrò l’unico posto dove avremmo potuto vivere e lasciarla il mattino dopo per sempre, fu il più grande errore che commettemmo.
di Marzia Fiordaliso