Alle radici dell’Economia Circolare, di Walter Ganapini, membro onorario Comitato scientifico dell’Agenzia Europea dell’Ambiente

A fronte di emergenze ambientali ormai percepite come incombenti, nel suo “1° Programma d’azione in materia d’ambiente” (1972), la Commissione Europea focalizzò l’esigenza di “approcci globali di prevenzione” per governare la “transizione da modelli dissipativi di uso delle risorse a modelli sempre più conservativi”, dove il termine “conservativo” va inteso nell’accezione termodinamica (conservazione di materia, energia, informazione). Si ricorse così all’elaborazione del Club di Roma (da “Limits to Growth” in poi), stante la comprovata inefficacia di modelli analitici settoriali in campo ambientale, che non solo non aiutavano a risanare i guasti prodotti, ma soprattutto non avevano fornito alcun allarme preventivo, venendo meno al ruolo di previsione del rischio tipico di una scienza eticamente responsabile. Era chiaro come la questione ecologica si inserisse nel contesto di una società a crescente complessità, per gestire la cui transizione alla sostenibilità (termine non ancora coniato) si assunsero allora nozioni quali “rete”, “flusso”, ”bioaccumulo” in luogo di quelle “effetto puntuale”, “crescita” ed altre sin lì prevalenti. Per governare la fitta rete di flussi di materia, energia ed informazione che sottendono gli insediamenti antropici, urgeva lettura sistemica dei fenomeni per redigerne bilanci ambientali ed energetici (ed economico-finanziari ad essi correlati) in base ai quali calcolare efficienza e rendimento dei diversi modi d’uso delle risorse (finite, cicliche, rinnovabili), bilanci utili al prendere decisioni strategiche. L’approccio sistemico si poteva disegnare come schema ciclico delle relazioni che legano risorse ambientali ed attività antropiche, produttive e di vita:

Fu tale schema concettuale che portò la UE a postulare una gestione dei rifiuti non per esperti settoriali, ma come sistema di cui minimizzare le emissioni massimizzando il recupero di materia, cioè con l’obiettivo conservativo prioritario di rallentare la velocità di estrazione dall’ambiente di materie prime scarse, energeticamente costose, tali da generare, nella trasformazione in merci, residui/metaboliti tossici e pericolosi.
Per promuovere la priorità ‘prevenzione dell’inquinamento’, in OCSE lavorammo su ‘Tecnologie più Pulite’ per ‘produrre in modo più pulito prodotti più puliti’ intervenendo su progettazione (Ecodesign), qualità e quantità di materie prime e prodotti finiti (LCA-Life Cycle Assessment), di rifiuti e sottoprodotti (‘Secondary Raw Materials’), di vettori energetici, strumenti che si integrarono poi nelle procedure UE ‘Sistema di Gestione Ambientale d’impresa’ (EMAS, Ecolabel) e Dichiarazione Ambientale di Prodotto-EPD e Politica Integrata di Prodotto-IPP), che sottendevano il ‘far lavorare il mercato per l’ambiente’, approccio ‘win win win’ che la cultura industriale avrebbe dovuto interpretare non come vincolo o costo, ma come fattore competitivo sui mercati globali, dialogando con gli Stakeholders e disegnando ‘supply chain’ e filiere in logica di Responsabilità Sociale ed Ambientale d’impresa. Mi onorò aver partecipato ad ognuno di questi passaggi, fino ad essere chiamato dall’Industry and Environment Office OCSE nel gruppo che diede vita al Journal of Cleaner Production al cui primo numero contribuii con un articolo sulla situazione italiana “Cleaner technologies in Italy: problems and perspectives”.

Eravamo consci che si dovessero prendere decisioni circa scenari spesso controversi anche sul piano scientifico: come Agenzia Europea dell’Ambiente documentammo i guasti generati da una incultura industriale (ancor più dalla finanziaria oggi dominante) finalizzata solo alla deregolata massimizzazione del profitto, creando le basi su cui l’UE incardinò il Principio di Precauzione a tutela dell’interesse generale. Era chiaro che la lettura sistemica dovesse nutrirsi della ‘Best Needed Information’ circa il fenomeno studiato, graduando la scala da locale a globale e usando analisi statistica, input/output, di processo ed ogni altra modalità resa possibile dall’innovazione per modellizzarlo, aiutando il governo pubblico delle connessioni tra flussi di risorse che sottendono l’agire umano, non ‘frammento’ ma ‘insieme unitario’. Diversi decenni sono passati, quindi, dalla prima messa in discussione della Economia Lineare (take-make-waste: Materia Prima+Capitale+Tecnologia+Lavoro = Merce) idolatrata da chi dimenticava che Ricardo e Smith postulavano normazione per la regolazione degli ‘animal spirits’ che la esaltazione del massimo profitto evocava, dalla Scuola di Chicago a Reagan e Thatcher fino ai turbocapitalisti d’oggi.
Lavoriamo perciò alla politica generativa di transizione al nuovo modello decarbonizzato di produzione, consumo, vita, in coerenza con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) individuati dalla Agenda 2030 dell’ONU, di cui l’Economia Circolare è pietra fondante.

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