Prevale in me la delusione per gli esiti di COP26 di Glasgow. Chi mi legge sa che non nutrivo illusioni, anzi, ma cercando di essere generativo e quindi coltivatore di speranza andavo ripetendomi ‘Natura non facit saltus, Historia facit’ e dunque non disperavo, pur consapevole da sempre che la resistenza al necessario cambiamento da parte degli interessi e poteri fossili era ed è granitica, essendo peraltro noto a ‘lorsignori’ che, qualora la concentrazione di CO2 in aria atmosferica dalle attuali 418 ppm arrivasse a 450 ppm, si potrebbe a ragion scientifica dovuta evocare il rischio ‘estinzione della specie’.
Sapevo che ‘lorsignori’, dopo il negazionismo e il ‘greenwashing’, puntavano ad ‘allungare il brodo’ per ottenere un ‘inactivism’ che garantisse loro di poter continuare a fare enormi profitti secondo modalità ‘business as usual’.
I 197 governi presenti alla Cop26 di Glasgow purtroppo non hanno adottato quelle necessarie misure immediate e drastiche chieste da anni dalla comunità scientifica e recepite nella Agenda 2030 delle Nazioni Unite, per limitare gli effetti dirompenti della crisi climatica, a partire da quelli che già colpiscono le nazioni più povere e vulnerabili, peraltro in minima parte responsabili di emissioni climalteranti.
Su tre questioni Glasgow si rappresenta come occasione irresponsabilmente mancata: carbone, sussidi governativi alle fonti fossili, erogazione dell’aiuto finanziario promesso a risarcimento del danno subito nelle realtà più povere e più vulnerabili sopra citate, cui è stata negata l’approvazione del meccanismo di indennizzo ‘loss and damage’ per i danni subiti da crisi climatica proposto da G77, Cina inclusa, e piccoli Stati insulari (Aosis) che insieme rappresentano quasi 6 miliardi di persone.
Da bozze iniziali in cui si parlava di ‘coal phase-out’ (uscita dal carbone) e di stop ai finanziamenti pubblici a favore delle fonti più dannose per il clima -carbone, petrolio e gas- si è arrivati a testi in cui si specifica che il ‘phase-out’ ineriva ‘unabated coal’, ovvero centrali non dotate di sistemi di recupero della CO2 emessa e che lo stop a sussidi avrebbe riguardato solo quelli “inefficaci”, senza definizione di tale termine.
A chiusura della Conferenza, infine, l’India, sostenuta da Stati Uniti, Cina, Australia e dai 503 lobbisti fossili pervenuti a Glasgow per perorare la causa di carbone, petrolio e gas, ha chiesto di modificare ‘phase-out’ in ‘phase-down’ (calo).
Altro risultato mancato riguarda l’attesa di obiettivi più ambiziosi negli aggiornamenti dei NDC (Nationally Determined Contributions) che ciascun governo avrebbe dovuto aggiornare per Glasgow indicando le promesse di riduzione delle emissioni: quelle pervenute non sono ritenute coerenti con il contenimento del riscaldamento globale fissato dall’Accordo di Parigi in una crescita della temperatura media globale di 1,5°C entro fine secolo rispetto ai livelli pre-industriali. Conseguire tale obiettivo avrebbe implicato decidere di tagliare del 45% le emissioni di gas serra entro il 2030 (rispetto ai valori 2010) per rallentare la tendenza in atto, che va nel senso di aumenti di T media globale verso un intervallo +2,4°C – 2,7°C.
Anche dalla finanza non sono venute le risposte attese a fronte della gravità della Crisi Climatica in atto: secondo Accenture, solo il 5% delle società quotate nei principali indici borsistici europei sta facendo quanto necessario per centrare l’obiettivo della ‘carbon neutrality’ (azzeramento delle emissioni nette di CO2) al 2050, solo un’impresa quotata su dieci è allineata all’obiettivo +1,5°C, 60 banche hanno concesso al settore delle fonti fossili 3.800 miliardi di dollari (2016 – 2020).
Sono persino stati annunciati «130mila miliardi di dollari dedicati alla carbon neutrality» nell’ambito della Glasgow Financial Alliance for Net Zero (GFANZ) cui aderiscono più di 450 istituti finanziari e grandi investitori: la cifra sbandierata non corrisponde ai capitali pronti ad essere impiegati nella Transizione Ecologica, ma agli asset gestiti dai membri della GFANZ, mentre dei 220 membri di Net Zero Asset Managers (NZAM) che gestiscono 57.400 miliardi di dollari gestiti solo 43 hanno pubblicato obiettivi intermedi in vista dell’azzeramento al 2050 delle emissioni nette e solo 11 hanno adottato obiettivi climatici sull’insieme dei business gestiti.
Meritano attenzione, nel testo approvato, l’impegno a fermare la deforestazione entro il 2030, il riferimento alla “giusta transizione” finanziando la riconversione dei lavoratori dei settori fossili e fornendo aiuto alle fasce più deboli per non scaricare su di loro i costi della transizione energetica, il chiarimento sulle regole di trasparenza circa raccolta/elaborazione dati, fondamentale per le ulteriori fasi di negoziazione.
Sul tema delle “compensazioni forestali” e del mercato delle emissioni che consente di continuare a inquinare acquistando “crediti” legati a nuova forestazione, infine, il testo appare ambiguo, al punto che l’ONU ne ha annunciato tempestiva revisione. Stando così le cose, fatico a comprendere chi, anche persona amica, vede ‘il bicchiere mezzo pieno’, riponendo fiducia nelle prossime COP previste tra Egitto ed Emirati.
Ritengo che gli scenari del Cambiamento Climatico aggiornati da IPCC e dalle più importanti istituzioni scientifiche a livello globale debbano indurre a ben altra presa di posizione, organizzando una risposta sociale che esiga una immediata riconvocazione dei governi per il salto di qualità politico ed economico che le tre crisi sistemiche in atto, climatica, finanziaria-industriale e pandemica impongono.
COP26 ha mostrato come la spaccatura tra il Nord e il Sud del mondo stia diventando precipitosa mentre la competizione tra Cina e Stati Uniti sarà sempre più una caratteristica della politica climatica: la lezione di Glasgow deve essere appresa per garantire che la risposta alla crisi climatica sia collettiva, partecipativa e orientata alla giustizia sociale ed ecologica, come ogni giorno sottolinea Papa Francesco.
Incombe altrimenti la riflessione di Milanovic: “Climate change activists (and not only governments) suffer from dissonance: if the crisis is so existential, then the means they advocate are totally inadequate; if they were to advocate draconian means, they will be unpopular; so we conclude that the crisis is much less dramatic.”
di Walter Ganapini, membro onorario Comitato scientifico dell’Agenzia Europea dell’Ambiente
L’ultimo articolo di Ganapini Rio de Janeiro (1992), Parigi (2015) e ora Glasgow (2021): cosa possiamo attenderci?