Riesce davvero difficile, presumo non solo a me, tentare esercizi di generatività nel momento presente, in cui alle tre crisi sistemiche interconnesse, pandemica, finanziaria-industriale e climatica irreversibile, si aggiunge l’incubo della guerra.
Il tentativo risulta ancor più difficile nell’Italia attuale, marginale, incapace di riforme, aggredita dal cancro della finanza criminale che intrude trasversalmente in ogni piega della società e dei comportamenti collettivi e individuali, infantile nell’attesa salvifica di gratuite piogge di miliardi altrui, carente di conoscenze e competenze fondamentali a seguito dei tagli ventennali a formazione, ricerca e sanità: un Paese tiranneggiato da pressochè incontrastate lobbies fossili, delle armi, mafiose.
Preoccupa la percezione dei piedi d’argilla del colosso PNRR, non solo per la oggettiva incertezza circa rischi di sua deliquescenza alla luce della situazione globale ma anzitutto per la intrinseca fragilità della collazione di centinaia di progetti oggettivamente raffazzonati la cui cantierabilità nei tempi prescritti appare del tutto improbabile anche per la debolezza della macchina amministrativa centrale e locale che dovrebbe garantirne la realizzazione.
Ho già scritto di come ogni ipotesi di semplificazione esigerebbe ben altra padronanza e conoscenza della macchina di governo; a questo si assomma la preoccupazione degli organi di contrasto alle mafie per i quali, ove avvenisse una pur parziale “pioggia di miliardi da Bruxelles”, alto sarebbe il rischio di intercettazione di flussi di risorse da parte dell’economia criminale.
Crisi sistemica e estinzione della specie
Sappiamo comunque che non operare la Transizione verso un nuovo modello di sviluppo implica avvicinarsi alla concentrazione di 450ppm di CO2 in atmosfera, valore cui la scienza associa il rischio estinzione della specie.
Oggi si misurano 420ppm di CO2 a Mauna Loa.
Non si dimentichi come Albert Schweitzer, che molto fece per l’Umanità più disperata di questo Pianeta, già negli anni ’40 affermasse: “l’uomo ha perso la capacità di prevedere, di prevenire e certamente finirà col distruggere la Terra”.
La riflessione sulla nozione di rischio associata alla nozione di incertezza parte mezzo secolo fa dalla analisi sistemica della complessità, che genera la crisi di letture deterministico-meccanicistiche dei nessi causali, sino ad allora ritenuti lineari, di fenomeni ambientali e relazioni tra organismi umani, biologici e sociali.
A tale acquisizione scientifica e culturale, gli interessi resistivi al necessario cambiamento contrapposero una martellante narrazione di una convivenza necessitata con il rischio, imbellettata dall’assunto “il rischio zero non esiste”, nozione sì evidente ma che occultava quella di prevenzione a favore di quella illusione tecnologica.
Da allora, la gestione del rischio è stata argomento in costante evoluzione sul piano teoretico, fino a postulare il ricorso al “Principio di Precauzione” e a suggerire le “no regret actions” come unica opzione nel caso di perturbazioni di origine antropica che generassero effetti potenzialmente irreversibili, per contrastarne l’irreversibilità amplificando la capacità omeostatica di reazione dei sistemi naturali.
In tale ottica, la irreversibilità della Crisi Climatica ha portato ora a indicare come “no regret actions” quelle resilienti e di adattamento inserite dalle Nazioni Unite nell’Agenda 2030.
Rapporto sul Principio di Precauzione dell’Agenzia Europea dell’Ambiente
Nel “Rapporto sul Principio di Precauzione” l’Agenzia Europea dell’Ambiente trenta anni fa sintetizzò le ultime lezioni dagli allarmi precoci (Late lessons from early warnings), studiando i casi dell’amianto, della mucca pazza, dei PCB, degli ormoni della crescita negli allevamenti, dei CFC, delle radiazioni, di MTBE, degli antibiotici nella alimentazione animale, per ogni caso focalizzando il primo “early warning” e le azioni o inazioni ad esso susseguenti, valutandone poi i relativi costi e benefici
Prima raccomandazione del Rapporto è di investigare gli “early warnings” soprattutto circa prodotti e processi con possibili impatti irreversibili, da monitorare attraverso ogni fase di sviluppo, con attenzione alle incertezze-chiave e ai parametri a contorno, ad esempio la persistenza, attribuendo priorità all’interfaccia tra ambiente e salute, evidenziando il ruolo di tre categorie di sostanze: organismi geneticamente modificati, “chemicals” e ” endocrine disruptors”, sostanze sintetiche che impattano sulla dotazione biologica a partire dalle capacità riproduttive).
In tema di “chemicals”, il massimo di attenzione è dedicato alla cosiddetta “sporca dozzina”, il cui carattere non previsto e studiato è la persistenza, che consiglia monitoraggi a lungo termine e capacità sistemica, non specialistica, di percepire le condizioni reali dello svolgersi dei fenomeni, quando i produttori delle sostanze citate spesso diffondono false assunzioni, anche riportate sulle etichette di molti prodotti. Casi ben noti vanno da MTBE (metilterbutiletere ritenuto utile come antidetonante nei carburanti in sostituzione degli alogenuri di Piombo e descritto come ‘incapace’ di raggiungere e contaminare l’acqua di falda, quando poi si è acclarato che MTBE è invece solubile e percola nelle falde, persistendovi a lungo) a PFAS (sostanze perfluoro alchiliche).
Occorre sottolineare la necessità di considerare, nella responsabilità che abbiamo come cittadini e come professionisti dei controlli ambientali, incertezze e scenario “worst case” (lo scenario dell’evento peggiore nella configurazione peggiore), studiando ciclo di vita del prodotto in esame e suo destino finale, distinguendo rischio, incertezza, ignoranza, evitando luoghi comuni e il ricorso ad una unica fonte, mettendo intorno al tavolo multidisciplinare tutti gli esperti potenzialmente interessati, dai medici ai veterinari, dagli ingegneri ai chimici.
Ciò non significa non tenere conto degli specialismi, ma indurli a relazionarsi con la percezione di ispettori industriali, lavoratori, medici locali, residenti relativamente ad un fenomeno, per evitare che, solo molto tempo dopo, venga accertato ed accettato come tema esistente, fino ad interessare il normatore: urge la Discussione Pubblica.
Rendersi conto di valori e prospettive differenti, di mezzi alternativi per fornire il servizio e la prestazione che si associa al prodotto o alla tecnologia in esame è coerente con la logica del Principio di Precauzione, soprattutto in presenza della tendenza spontanea, soprattutto dei grandi produttori, a divenire monopolisti e quindi a bloccare l’innovazione.
Ciò comporta che, se si è corpo di regolazione e di controllo, occorre mantenere distanza dalle parti interessate: gli effetti sul sistema osseo del benzene (1897), gli effetti dell’amianto (1898), gli effetti negativi dei PCB sui lavoratori (negli anni ’30) sono stati riscontrati come noti all’industria interessata e, a volte, anche del normatore: addirittura il comitato scientifico dei promotori dell’ormone della crescita operava esclusivamente sui dati provenienti dall’industria.
Chi ha ruolo di controllo e regolazione deve essere terzo rispetto alle parti interessate, e mettere in conto tutti i costi e tutti benefici; ciò massimizza l’efficienza, stimola l’innovazione, minimizza il degrado ambientale e sanitario.
Se i costi associati alla azione precauzionale crescono ad un ritmo diverso e più alto dell’azione stessa e dei suoi effetti, nella letteratura scientifica si dice che si è superato il “precautionary principle” per arrivare a dover adottare il “proportionality principle”: l’interfaccia tra scienza e politica deve cambiare paradigma, da “fatti consistenti – valori deboli”, a “deboli fatti/deboli segnali scientifici – forti valori pubblici”, da cui viene il “Vorsorge-prinzip” nel 1984 inserito nella legge tedesca, stimolando la detezione del fenomeno molto precoce, e quindi a ricercare.
Anziché mirare a rivestire di robusti fasci muscolari e reti neurali di competenza, trasparenza e rigore progettuale e gestionale comprovato (in Italia esistono ancora ‘professionals’ pubblici e privati con esperienza e competenza all’altezza della sfida) l’esile scheletro di Pubbliche Amministrazioni allo stremo e di un mondo imprenditoriale che lotta per la sopravvivenza di una economia industriale i cui migliori comparti sono passati in mani non italiane in tempi di finanziarizzazione deregolata, la ‘smania semplificatrice’ oggi in voga pare al più affidarsi alla delega a singole persone prestate dalle multinazionali di consulenza presso cui lavorano.
A futura memoria, nessuno dovrà poter dire che Cambiamento e Transizione non avrebbero potuto e dovuto alimentarsi di avanzate e consolidate metodologie di progettazione e valutazione preventiva, in progress ed ex-post delle azioni prioritarie, a causa della incertezza dei loro contorni operativi in tempi di big data, a partire dal Principio di Prevenzione.
A riprova della inconsistenza di tale assunto e della “scoraggiante narrazione circa il ricorso agli approcci preventivi” oggi prevalente, è bene ricordare il caso degli endocrine disruptors e dei loro devastanti effetti su salute, fertilità riproduttiva e capacità cognitiva che, a due decenni dall’allarme che lanciammo come Agenzia Europea dell’Ambiente, trovano piena conferma scientifica.
Gli interferenti endocrini influenzano biosintesi degli ormoni, metabolismo e sua omeostasi, arrivando ad esempio a perturbare lo sviluppo del feto: sono presenti in alimenti come residui di pesticidi, erbicidi e fungicidi, in beni di uso quotidiano, dai tessuti alle plastiche (ftalati), nei rifiuti industriali (PCB, diossine).
Un recente studio di coorte (SELMA) ne ha analizzato l’impatto sullo sviluppo neurocomportamentale dei bambini, registrando ritardi nello sviluppo del linguaggio; studi in vitro su cellule staminali del feto hanno visto attivare numerosi geni imputati di deficit neurocognitivi, mentre studi in vivo hanno identificato alterazioni dell’attività dell’ormone tiroidale (TH).
di Walter Ganapini, membro onorario Comitato scientifico dell’Agenzia Europea dell’Ambiente
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