Massimiliano Pontillo

Green(washing): un’eco che non ci piace, di Massimiliano Pontillo

La sostenibilità è sempre più un vero e proprio strumento di competitività per le aziende, richiesta dagli investitori italiani e stranieri. Consumatori e stakeholder chiedono alle imprese maggiori garanzie su lavoro e prodotti, perché siano buoni per l’ambiente e per le persone.

Uno studio condotto da McKinsey ci dice che sono circa il 70% i consumatori che nelle loro scelte di acquisto sono pronti a optare per prodotti green rispetto a quelli tradizionali, anche pagando prezzi più elevati.

In effetti è davvero tutto “verde” quello che luccica?

Sono tanti i messaggi promozionali che hanno contenuti ambientali, il che fotografa un’esigenza del mercato di assecondare una domanda eco-friendly. Benissimo! O almeno in parte, però. A volte è solo comunicazione. Bio, carbon neutral, eco, sostenibile, plastic free… Ormai è difficile trovare un prodotto o un servizio che, per presentarsi, non utilizzi uno o più di questi termini. Segno che un tema importante come quello della crisi climatica ha raggiunto un ampio numero di persone, molto più sensibili di fronte alla scelte di un prodotto o un servizio, agli impatti sull’ambiente.

Quando è solo greenwashing

Non sempre però alle autodichiarazioni corrispondono i fatti. E spesso, quindi, la sostenibilità diventa per le aziende una semplice strategia di marketing. È allora che si parla di greenwashing.

La nascita di questa locuzione risale al 1986, quando l’ambientalista Jay Westerveld la usò in un saggio in cui criticava un hotel che incoraggiava i propri clienti a riutilizzare gli asciugamani per proteggere l’ambiente. Quando in realtà il suo fine era solo ridurre i costi e migliorare i propri margini di profitto. Una pratica che ora apprezzeremmo unanimemente, preoccupati semmai che le aziende non diffondano notizie ingannevoli.

Prassi sempre più diffusa e pericolosa che anche l’Unione europea cerca di contrastare, con le sue “Linee guida sulle dichiarazioni ambientali fuorvianti”.

Non c’è dubbio che tante aziende, istituzioni, enti si impegnano realmente nel ridurre il proprio impatto sul Pianeta; ma è altrettanto vero che molti altri applicano strategie pubblicitarie che non corrispondono a una vera tutela sia dell’ecosistema sia dei propri dipendenti.

greenwashing

La corretta comunicazione in materia di tutela ambientale

Da qualche anno Eco Business, un media indipendente con sede a Singapore, pubblica una classifica dei casi più clamorosi di greenwashing da parte di aziende, organizzazioni e persino Stati; erano otto nel 2020, sono saliti a undici nel 2021.

Esistono già da tempo in Italia alcune regole di comportamento per cercare di ottenere una comunicazione corretta sulla tutela ambientale, stilate nel 2014 dall’Istituto Autodisciplina Pubblicitaria con l’obiettivo di proteggere i consumatori.

Greenwashing: la prima ordinanza cautelare di un Tribunale italiano

Il 26 novembre 2021 è stata emessa la prima ordinanza cautelare di un Tribunale italiano in materia di greenwashing; un atto che risulta essere tra i primi anche in Europa. Dopo i provvedimenti del Giurì di Autodisciplina Pubblicitaria e dell’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato, anche la magistratura ordinaria si è quindi espressa sulla comunicazione green delle aziende e dei loro prodotti.  Nel merito, i giudici hanno accolto il ricorso d’urgenza presentato da un brand italiano specializzato in tessuti ad alto contenuto tecnologico per il rivestimento di elementi di autoveicoli (ed altro) contro un’azienda concorrente.

L’Unione Europea, nell’ambito del Green Deal e attraverso alcune direttive, sta formulando una serie di misure, sia per quanto riguarda la protezione dei consumatori contro le affermazioni ambientali false, sia dando delle regole ai produttori affinché non inducano in errore i cittadini. Nel resto del mondo, soprattutto negli Usa, molti governi e autorità di controllo stanno approntando linee guida sanzionatorie.

I Dati del Mornistar Global Market Barometer

Proprio ultimamente la Sec (l’autorità di vigilanza della Borsa degli Stati Uniti) ha emanato una prima bozza per definire le informazioni che i fondi d’investimento devono fornire quando qualificano le loro offerte con termini quali “Esg”, “sostenibile” o “low-carbon”. Un’iniziativa davvero ambiziosa se pensate che, secondo il Mornistar Global Market Barometer, nel primo trimestre di quest’anno il patrimonio globale dei fondi “sostenibili” ammontava, negli USA, a ben 2,77 miliardi di dollari contro 1 miliardo di dollari del 2019.

È quindi sempre più evidente come eventuali dichiarazioni non veritiere influenzino i comportamenti dei consumatori, e degli investitori, danneggiando la competitività delle aziende più rigorose e virtuose.

Il dossier elaborato da Circonomia

Da un recente dossier elaborato da Circonomia si sottolinea l’importanza di come “smascherare questa pratica, spesso basata su vere e proprie fake-news, conviene non solo a cittadini, consumatori ed ecologisti, ma anche e soprattutto alle imprese che sono realmente sostenibili”.

Date poi le molte facce del washing, e le grandi risorse di cui spesso dispone, bisogna quindi alzare le difese.
Quelle della buona informazione, anzitutto.