Il greenbickering, tradotto letteralmente, è il battibecco green, una pratica messa in atto da alcune aziende per mettere in cattiva luce un concorrente. Un’impresa che, per vendere e posizionarsi meglio sul mercato, dovesse scendere in campo con campagne di comunicazione sostenibile, basate su un falso focus green, potrebbe ricevere le critiche di un’altra e la conclusione sarebbe una causa in tribunale.
Il greenwashing del resto è cosa nota, una moda diffusa quella di dimostrare il proprio lato responsabile senza avere requisito alcuno e rendere i propri prodotti più gradevoli per i clienti aggiungendo nella comunicazione aggettivi che richiamano alla sostenibilità. Le ricerche di mercato dicono che il 60% delle imprese sarebbe caduto almeno una volta in comunicazioni green ingannevoli (dati Nielsen).
La comunicazione sostenibile, i risultati dell’indagine di mercato
Cresce sempre più fra i consumatori una coscienza ecologica e la decisione di portare a casa un prodotto o l’altro a seconda del suo impatto sull’ambiente. Niente di più allettante per una società che giocare su un poco meritato quanto sleale dna verde attraverso una campagna di comunicazione sostenibile.
Secondo una recente ricerca Growh for Knowladge, condotta in Italia, il 30% dei consumatori dichiara di evitare gli imballaggi in plastica mentre il 36% ha smesso di comprare prodotti dannosi per l’ambiente.
Un’indagine della Commissione europea, delle autorità nazionali di tutela dei consumatori insieme ad altre autorità internazionali, sotto il coordinamento della Ipcen (Consumer Protection and Enforcement Network) ha evidenziato che nel 42% dei casi non si è ritenuta veritiera l’anima green delle aziende. Nel 50% dei casi analizzati, le imprese non hanno dato ai consumatori informazioni sufficienti per valutare quanto comunicato in materia di ecosostenibilità; nel 37% il claim conteneva formulazioni generiche, come “rispettoso dell’ambiente”, o “eco” e nel 59% dei casi non venivano esplicitati elementi a supporto di quanto dichiarato.
Ovvero – spiega Rita Santaniello avvocato dello studio multinazionale Rödl & Partner – io azienda posso intentare causa per concorrenza sleale verso uno o più miei competitori che utilizzino marchi, slogan o diciture green non comprovate per vendere di più, quindi sottraendo mercato agli altri, o per ‘inverdire’ la propria immagine, ottenendo così ingiustamente un vantaggio competitivo rispetto agli altri.
Il Parlamento europeo contro il greenwashing
Lo scorso maggio il Parlamento europeo (544 voti favorevoli, 18 contrari e 17 astensioni) ha approvato la propria posizione negoziale sul greenwashing. Il progetto legislativo prevede di vietare l’uso di diciture green generiche come ad esempio “a impatto zero, naturale, biodegradabile, amico della natura, ecologico” se non comprovabili, inserendole in un elenco di pratiche commerciali da considerarsi scorrette e quindi illecite.
E la mia sensazione è che – riflette il legale Rödl – definiti i paletti legislativi che comunque lasceranno spazio a ampie eccezioni, concrete attuabilità (i mercati sono oggi globali, ma gli ordinamenti giuridici no) e interpretabilità, le aziende non esiteranno a combattersi su questo fronte. Ma forse questo, al netto dell’aggravio del lavoro dei Tribunali, potrebbe essere anche un bene perché le varie sentenze ed esperienze agevoleranno una regolamentazione più puntuale in materia. Anche se – conclude l’avv. Santaniello – ci vorrà parecchio tempo.