Ad Amsterdam è stato inaugurato in ottobre il Fashion for Good, primo museo dedicato alla moda sostenibile, in cui i visitatori possono vivere un’esperienza interattiva unica e sapere se sono presenti, nei capi di abbigliamento che indossano o sono in procinto di comprare, potenziali sostanze tossiche, non biodegradabili e impattanti sulle falde acquifere e sull’atmosfera del pianeta.
Ma siccome anche noi italiani di moda qualcosa capiamo abbiamo aperto a Roma, nel quartiere San Lorenzo (in un piccolo edificio di ringhiera) il MoRA – Museum of Recycled Art, spazio espositivo dedicato all’arte del riciclo. Si ammirano abiti, accessori e oggetti d’arredamento realizzati con gli scarti di ogni tipo.
Ideatrice e fondatrice del MoRA la giornalista Rai Mariaceleste de Martino, attivista nel campo dell’ambiente che ha recentemente esposto alcune sue opere anche all’Eco Fair, il Festival della sostenibilità a Roma: “Apple è nata in un garage. Gesù in una stalla. Forse anche il MoRA può crescere ed espandersi”, afferma de Martino sorridendo. “Lancio un appello alle istituzioni: offritemi uno spazio più ampio dove ospitare più artisti, ce ne sono tanti che creano capolavori con materiale di scarto. La mia linea di accessori ‘Pop Art’ si chiama ‘Da Cosa Nasce Cosa’, quindi magari da piccolo museo diventerà un grande museo”, spiega de Martino. E aggiunge orgogliosa: “Ho ricevuto i complimenti anche dalla Direzione Musei del Ministero dei Beni Culturali e dal Comune di Roma”.
“Nulla è in vendita al museo: gli oggetti fanno parte del mio guardaroba, della mia vita quotidiana. Espongo solo per mostrare cosa si può fare con qualcosa che sembra inutile o da buttare. Voglio sensibilizzare le persone a riutilizzare quello che ormai si considera immondizia, destinata a morire per sempre. Invece, tutto può continuare a vivere, trasformato per rinascere. Io rianimo e ridò vita alla spazzatura morta. Persino con i tubi di cartone all’interno dei rotoli di carta igienica ho creato una pochette. Da una catena di plastica trovata in una discarica ho fatto una borsa. E ho anche lavorato ai ferri dei cavi di caricabatteria di vecchi telefoni cellulari e ne ho fatto degli orecchini. In mostra anche una collezione privata di oggetti di vari artisti che ho acquistato in giro per il mondo”, ha spiegato.
“Serve fantasia nella vita per fare qualsiasi cosa. Bisogna immaginare che qualunque cosa può diventare qualcos’altro. Gli artisti classici martellavano su un pezzo di marmo o plasmavano un pezzo di creta facendolo diventare una scultura dall’aspetto vivente. Anche Geppetto da un tronco di legno ha fatto nascere suo figlio, Pinocchio. Tutto è possibile”, conclude sorridendo Mariaceleste de Martino.
La visita sarà anche un momento per riflettere sui nostri acquisti, su quel preciso momento in cui pagando alla cassa è come se stessimo dando un voto all’azienda che lo ha prodotto, la premiamo senza resa, compiamo un passo importante cui spesso diamo poco peso. Dietro a famosi e storici marchi (e vale anche per i prodotti alimentari) si nasconde talvolta uno sfruttamento senza pari sia dei lavoratori che producono quelle merci, sia dell’ambiente sempre più povero, sia degli animali (troppi i pesticidi utilizzati dannosi per tutti).
Si stima che una famiglia italiana media si disfi, ogni anno, di circa 20 kg di vestiti (senza considerare gli accessori) ormai superflui e che, di conseguenza, ne acquisti altrettanti. Vista questa propensione è giusto porsi qualche domanda in più. Buona fonte di informazione è il sito www.abitipuliti.org, spazio web della Campagna Abiti Puliti – sezione italiana della Clean Clothes Campaign – che opera per sensibilizzare consumatori, imprese e governi. Offre solidarietà e sostegno diretto agli operai che lottano per i loro diritti e chiedono migliori condizioni di vita.
Quando diventano sostenibili i nostri armadi? Quando compriamo indumenti usati nei mercatini o nei negozi vintage, oppure vestiti nuovi del commercio equo e solidale, o abiti prodotti in canapa o cotone biologico o in altri materiali etici o capi che riportano l’etichetta Made in Italy, il cui acquisto sostiene la nostra economia. In quest’ultimo caso, purtroppo, la legge non aiuta molto il consumatore; basta infatti che una zip sia stata cucita nel nostro Paese e la merce in questione può fregiarsi di quel marchio.
Nel 2013, anche Greenpeace si è spesa per chiedere alle grandi catene l’eliminazione delle sostanze tossiche prodotte dalla tradizionale industria della moda, iniziativa a cui hanno aderito Benetton, Zara, H&M, Nike, Puma, Mango, Levi’s, Adidas, Valentino e il distretto tessile di Prato. Oggi molti acquirenti chiedono di sapere cosa indossano (e alcune realtà come OVS non vendono più capi con inserti in pelliccia vera) ma anche in che condizioni lavorano gli operai addetti; nel 2016 ben 70 mila persone hanno aderito al movimento globale Fashion Revolution Week, chiedendo alle aziende chi cucisse realmente i loro vestiti e usando l’hashtag #whomademyclothes.
Anche il nuovissimo Museum of Recycled Art può costituire un grande passo avanti vero la rivoluzione verde, un passo alla volta, tutti insieme.
Il MoRA è curato dall’Associazione Culturale “Atelier Anna Tomasetta – Di che stoffa sei?”
Visite SOLO su prenotazione scrivendo a info@atelierannatomasetta.it – Ingresso gratuito
di Marzia Fiordaliso