ORSI, ANIMALISTI, MONTANARI ED ALTRI ANIMALI

Il 13 agosto 2017 l’orsa KJ2 è stata uccisa da alcuni agenti del Corpo forestale della Provincia Autonoma di Trento, in attuazione di una ordinanza di abbattimento emanata dal Presidente della Provincia, Ugo Rossi. L’orsa, identificata mediante test genetici, pochi giorni prima aveva ferito un settantenne, Angelo Metlicovec, che passeggiava nel bosco con il proprio cane. Nel 2015 lo stesso animale aveva causato il ferimento di un’altra persona, Wladimir Molinari, provocando una lesione significativa alla muscolatura del braccio, tanto che l’interessato riferiva in seguito di aver perduto il lavoro da imbianchino .
Quando ho saputo della morte di KJ2 ho pensato con una punta di commozione a quel bellissimo film di Jean-Jacques Annaud, “L’orso”, che sa raccontare quanto questo grande carnivoro sia intelligente e giocherellone, con quella divertente sfumatura di pigrizia che, quanto meno nella mia immaginazione, me lo fa sentire così affine e, passatemi la parola, umano.
Ho pensato pure che il provvedimento adottato dal Presidente della Provincia fosse un atto dimostrativo, crudele e sproporzionato. Nell’immediato l’orsa, anzi che uccisa, avrebbe potuto essere semplicemente catturata e ridotta in cattività. E, fuori tempo massimo, anche l’Assessore Michele Dellapiccola si è ricordato che per gli orsi “cattivi e problematici” è pur sempre ipotizzabile il trasferimento in altro territorio a minore tasso di antropizzazione. Perché allora ucciderla? Per mostrare il “pugno di ferro” e coprirsi il fianco destro, incalzato dalla Lega Nord?
Al contempo, mi ha lasciato fortemente perplesso la reazione scomposta di alcuni gruppi animalisti, legata quasi esclusivamente alla emotività del momento, con minacce di aggressioni, boicottaggi e insulti nei confronti degli abitanti del Trentino. Una reazione, alla pari dell’ordinanza di abbattimento, non preceduta da una analisi reale della questione della convivenza tra uomo e orso nelle regioni alpine, incapace di formulare proposte concrete e praticabili. Un tentativo del tutto speculare di strumentalizzare la vicenda per ottenere visibilità mediatica e, chissà, un pugno di voti alle prossime elezioni.
E con quali risultati, poi, in termini di tutela degli orsi che ormai popolano le Alpi centro-orientali? Gli animalisti puri e duri credono che, in questo modo, le persone che abitano le montagne intorno al Brenta e all’Adamello saranno maggiormente propense a tollerare i piccoli e grandi pregiudizi che inevitabilmente sono da mettere in conto a causa della presenza dell’orso?
Lasciamo pure da parte la casistica sulle cosiddette “aggressioni” nei confronti dell’uomo, vere o presunte, spontanee o provocate. Ci sono comunque da mettere in conto i danni al bestiame e alle colture, e le conseguenti seccature burocratiche per i risarcimenti. Un mio amico che vive nei pressi di Trento mi raccontò che, una volta, scese giù in cantina e si ritrovò un orso in letargo tra gli scatoloni: episodio assolutamente buffo da ascoltare, un po’ meno da vivere, suppongo.
Ed in effetti, nonostante l’uccisione dell’orsa, i proclamati boicottaggi dei sedicenti animalisti, i cortei e le proteste sui social – ai quali sembra abbiano aderito per lo più persone che in Trentino ci sono passate magari in autostrada, e che non sanno distinguere un larice da un pino cembro – i dati sui flussi turistici nella Provincia di Trento nell’estate 2017 sarebbero addirittura migliori di quelli dell’anno-record 2016. Dobbiamo concludere che aveva ragione il nostro Elmer Fudd-Ugo Rossi?
Nel corso del discutibile balletto sulla pelle dell’orso, infine, qualcuno ha pure pensato bene di rimproverare ai Verdi del “Sole che ride” – che attualmente non hanno neppure un gruppo consiliare in seno al Consiglio provinciale di Trento – di essere corresponsabili dell’uccisione di KJ2 a causa dell’appoggio a suo tempo dato alla candidatura di Rossi alla Provincia.
In attesa di essere incolpati anche dell’Inquisizione spagnola e del riscaldamento globale, viene però da chiedersi dov’erano, o in quali fila militavano, tra il 1996 e il 1998, molti degli inflessibili accusatori di oggi, quando in Trentino prendeva avvio il progetto “LIFE Ursus”. Un piano di ripopolamento finanziato con fondi europei che già in sede di studio di fattibilità (consultabile sul sito web del Parco Naturale Adamello Brenta, www.pnab.it) contemplava espressamente l’eventualità di abbattere gli orsi giudicati pericolosi per l’incolumità dell’uomo, tanto che la medesima extrema ratio è espressamente codificata anche nel Piano d’Azione Interregionale per la Conservazione dell’Orso Bruno sulle Alpi Centro Orientali (cosiddetto PACOBACE, questo consultabile sul sito del Ministero dell’Ambiente).
Quante voci contrarie si sono levate, in tempi non sospetti, contro l’idea – apparentemente non deprecabile – di riportare l’orso sulle Alpi? E poi, seconda e più importante questione: ora che nei boschi del Trentino vivono, secondo stime ufficiali, tra i 40 ed i 66 orsi (secondo altri, oltre 100 esemplari), come si vuole agire per il loro benessere?
Perché il problema con cui confrontarsi adesso – al di là delle giuste espressioni di rabbia e sdegno per l’uccisione dell’orsa KJ2 – sta proprio nella artificiale reintroduzione di un grande carnivoro all’interno di un territorio in cui è forte la presenza del “superpredatore” homo sapiens. Un homo sapiens, peraltro, oggi ben diverso nelle sue abitudini e nelle sue modalità di relazione con l’ambiente naturale rispetto a quello del 1700, quando gli orsi erano ancora piuttosto diffusi sull’arco alpino.
Una questione culturale, dunque, oltre che scientifica, che investe direttamente il senso delle azioni di ripopolamento. Ancor prima di valutare “come” è possibile riportare l’orso sulle Alpi, o il leopardo delle nevi in Afghanistan, dovremmo infatti chiederci qual è il significato, il valore, di reintrodurre una specie animale in un habitat modificato, in cui anche i comportamenti umani si sono col tempo modificati.
Se lo scopo del ripopolamento è solo quello di ricreare un ecosistema che assomigli il più possibile a quello di un certo periodo storico precedente, ma che al contempo soddisfi il “gusto contemporaneo” per tutto quanto riguarda la nostra fruizione dell’ambiente naturale – un po’ come nel caso dei dubbi restauri dei ruderi di Roma realizzati da Valadier – è chiaro che il benessere di ciascun singolo orso in sé considerato passa un po’ in secondo piano, a vantaggio di un approccio che si preoccupa solo di garantire una sopravvivenza “di gruppo” compatibile con la presenza dell’uomo.
Forzando un po’ il ragionamento, sempre di uno zoo stiamo parlando: al posto delle sbarre abbiamo collocato guardie forestali pronte ad abbattere gli animali recalcitranti.
L’aspetto più sorprendente è che, in questo giardino zoologico allargato, abbiamo finito per rinchiudere non solo alcuni esemplari di ursus arctos, ma anche un buon numero di homo sapiens, ormai disabituati alla relazione con l’orso, e che non a caso si rivelano spesso incauti ed indifesi nella interazione diretta con l’altra specie.
Con l’ulteriore paradosso che i costi maggiori del piano di ripopolamento vengono posti proprio a carico di chi, abitando le montagne, tutto sommato ha maggiormente conservato, fino ad oggi, stili di vita ecosostenibili ed integrati con l’ambiente. Una comunità umana che, però, non possiede più, quanto meno per l’intero, il vecchio patrimonio di competenze, usi e tradizioni che regolavano il rapporto con l’orso – la propria antica Heimat per usare una parola che ben conoscono un po’ più a nord del Trentino – e che tuttavia ancora non ha interiorizzato e contribuito a crearsene uno “nuovo”.
In nome di una “progettualità utopistica” – propria di quegli esemplari di homo sapiens che assumono il ruolo di demiurghi o di spettatori arrabbiati, comunque comodamente collocati ben al di fuori delle sbarre dello zoo – corriamo il rischio di perdere il contatto con quegli “strati sociali che ancora non hanno subito per intero la lobotomia industrialista e modernizzatrice” e che praticano ancora uno stile di vita rispettoso della “famiglia terrena”, piuttosto che predicarlo.
Nello spostare in avanti con coraggio e lungimiranza la frontiera della bioetica, il pensiero animalista e anti-specista – secondo cui non si devono riconoscere particolari privilegi a taluni “individui” unicamente in base alla loro specie di appartenenza – deve anche proporsi il compito di cercare nuove modalità concrete di relazione tra l’uomo e le altre specie, evitando la trappola di inseguire la ricostruzione di una natura falsamente “pre-culturale” , e misurandosi invece con le esigenze e con i valori di quelle comunità che, ancor oggi, più di altre praticano la relazionalità con gli altri animali e con l’ambiente naturale.
Per fare questo, in Trentino come altrove, non occorre inseguire una impossibile restaurazione dei rapporti uomo-animale com’erano prima della rivoluzione industriale. Né è pensabile lasciare tutto “così com’è”, rassegnandoci, quando attraversiamo un bosco, ad assumere lo stesso stato d’animo di chi visita le rovine di una città morta.
Nell’alternativa tra limitarci a contemplare lo sfacelo perpetrato dalla nostra specie o cercare di dare al nostro pianeta e a tutta la famiglia terrena, piante ed animali (e dunque anche uomini), una seconda chance, continuo tra mille dubbi a preferire questa seconda possibilità.

Non ci aspetta un compito agevole, ma – tornando al caso specifico del progetto “LIFE Ursus” – possiamo ancora immaginare nuove forme di interazione tra uomo e orso che siano rispettose di uomini, orsi e del nuovo habitat in cui si trovano a convivere:
1) Rinunciare all’idea che l’orso “non sia pericoloso” e “non attacchi mai l’uomo se non è provocato”. Come vale il principio di precauzione quando si svolge una attività che potrebbe essere pericolosa per la salute e per l’ecosistema, allo scopo di limitarla o vietarla, così le scelte relative alla salvaguardia dell’orso sulle Alpi devono muovere anche dal presupposto condiviso che l’orso è un animale potenzialmente pericoloso per l’incolumità delle persone. Magari, statisticamente, abbiamo maggiori possibilità di essere investiti da un’auto che essere aggrediti da un orso, ma in entrambi i casi è giusto considerare la sussistenza dei correlativi rischi ed approntare precauzioni e rimedi. Tra questi segnalo la proposta, formulata dalla Provincia Autonoma di Trento, di rendere commerciabile anche in Italia il cosiddetto “bear spray”, ossia un dissuasore al peperoncino, anche se la sua effettiva utilità e le correlative controindicazioni sono ancora tutte da verificare.
2) Parallelamente, rinunciare una volta per tutte all’idea che l’orso “pericoloso”debba essere ucciso, salvo il caso della legittima difesa nel corso di una aggressione, sia pure una aggressione provocata da un errato comportamento umano. Con tutte le spese che si rendessero necessarie, l’animale aggressivo ed i suoi eventuali cuccioli dovranno essere catturati e ricollocati in altra area non antropizzata (e dalla quale non possano ritornare all’area di provenienza: ad esempio i Balcani o i Carpazi). I fondi europei devono essere utilizzati anche a questo tipo di intervento, certo più costoso rispetto all’acquisto di una pallottola.
3) Proseguire e migliorare le attività di controllo della popolazione degli orsi mediante strumenti informatici e ad impulsi radio. Pur non essendo un esperto di queste tecnologie, suppongo che il radio-collare possa essere col tempo e con il progresso tecnico sostituito da chip fissi, che possono essere inseriti sotto la pelle dell’animale, per assicurare un monitoraggio costante. Si potrebbe persino immaginare una app su cellulare che segnali alle persone che si trovano nelle foreste frequentate dagli orsi la loro prossimità (anche se poi potrebbe verificarsi un abuso di queste cautele da parte dei bracconieri).
4) Usare maggiore correttezza e trasparenza nei rapporti tra le istituzioni coinvolte nel progetto “LIFE Ursus” ed i cittadini. Le informazioni sul numero degli esemplari di orso presenti nel territorio, sui casi di danneggiamento e sui cosiddetti “attacchi” devono essere facilmente accessibili e, soprattutto, indubitabilmente veritiere. A fianco degli organismi della Provincia e dell’Ente parco, si potrebbe a tal fine costituire una consulta permanente dotata di poteri di vigilanza, a-partitica, composta da cittadini residenti, “orso-scettici”, ecologisti ed animalisti (hai visto mai che magari, lavorando ad un obiettivo comune, si riesca pure a conoscersi un po’ meglio e ad andare d’accordo).
Si può fare ancora tanto per il benessere degli orsi, e non mi riferisco alla “specie-orso”, ma proprio ai singoli plantigradi che, per loro fortuna o sfortuna, si trovano ora ad abitare i nostri stessi territori. Forse non diversamente da quegli altri homo sapiens che, ultimamente, spinti dalla necessità, attraversano il Mediterraneo, portando qui da noi, come sempre accade, rischi ed opportunità.
Speriamo dunque che lo scopo del piano di ripopolamento dell’ursus arctos sulle Alpi sia innanzitutto costruire un nuovo modello di convivenza tra le due specie e non già, banalmente, il mero conseguimento di finanziamenti per poter esibire l’orso ai turisti o all’opinione pubblica, salvo poi abbandonare l’animale a sé stesso quando diventa scomodo. Auguriamoci che KJ2 non sia stata sacrificata su questo altare.

Guglielmo Calcerano – coportavoce Verdi di Roma