Miliardi di capi tessili prodotti ogni anno che devono ad un certo punto del loro ciclo di vita essere smaltiti. Il riciclo degli abiti usati è una delle criticità della moda del terzo millennio soprattutto perché l’industria del fast fashion produce abbigliamento in fibre chimiche, non riciclabili, provenienti dal petrolio, che hanno avuto bisogno di tanta acqua e tanta energia per diventare utili allo scopo.
Pochi giorni fa è stato lanciato il Movimento Moda Responsabile un network formato da brand, produttori, aziende, cooperative, professionisti e associazioni che operano nel settore della moda, tutti impegnati per creare un’industria del tessuto sempre più responsabile.
Il Manifesto che ne è derivato si basa su principi come la ricerca della qualità, la creazione di valore sociale, il rispetto per l’ambiente e l’etica mentre sono tre i principali obiettivi:
- alle aziende si chiede di promuovere la trasparenza e le buone pratiche, aiutandole a capire come avere un impatto sociale positivo e proponendo linee guida concrete;
- alle istituzioni si chiede di promuovere il senso di responsabilità, unendo le voci di produttori e consumatori per acquisire maggiore forza e poter quindi proporre nuove norme in favore della sostenibilità;
- agli acquirenti si chiede consapevolezza e pensiero critico offrendo loro informazioni chiare sulle aziende virtuose e responsabili.
Come avere armadi sostenibili
Si stima che una famiglia italiana media si disfi, ogni anno, di circa 20 kg di vestiti (senza considerare gli accessori) ormai superflui e che, di conseguenza, ne compri altrettanti. Vista questa propensione è giusto porsi qualche domanda in più.
Ogni volta che procediamo con un acquisto è come se stessimo dando il nostro voto all’azienda che lo ha prodotto, la premiamo senza resa, compiamo un passo importante cui spesso diamo poco peso. Dietro a famosi e storici marchi si nasconde talvolta uno sfruttamento senza pari sia dei lavoratori che producono quelle merci, sia dell’ambiente sempre più povero, sia degli animali (troppi i pesticidi utilizzati dannosi per tutti).
Quando diventano sostenibili i nostri armadi? Quando compriamo indumenti usati nei mercatini o nei negozi vintage che si occupano di riciclo degli abiti usati oppure vestiti nuovi del commercio equo e solidale, o abiti prodotti in canapa o cotone biologico o in altri materiali etici o capi che riportano l’etichetta Made in Italy, il cui acquisto sostiene la nostra economia. In quest’ultimo caso, purtroppo, la legge non aiuta molto il consumatore; basta infatti che una zip sia stata cucita nel nostro Paese e la merce in questione può fregiarsi di quel marchio.
Riciclo degli abiti usati, il consorzio Retex.Green
Retex.Green è il primo consorzio italiano no-profit di produttori della filiera del tessile. La missione principale del consorzio è la gestione dei rifiuti provenienti dai prodotti del tessile, dell’abbigliamento, delle calzature e della pelletteria in un’ottica di economia circolare. Il consorzio si fa carico della raccolta attraverso diversi canali, primo fra tutti quello della raccolta urbana. Ecco cosa avviene dopo:
- stoccaggio delle merci;
- trasporto agli impianti di selezione dove il rifiuto è valutato per un possibile riutilizzo;
- riciclo;
- smaltimento.
Buona fonte di informazione è il sito della Campagna Abiti Puliti sezione italiana della Clean Clothes Campaign, che opera per sensibilizzare consumatori, imprese e governi. Offre solidarietà e sostegno diretto agli operai che lottano per i loro diritti e chiedono migliori condizioni di vita.