Rio de Janeiro (1992), Parigi (2015) e ora Glasgow (2021): cosa possiamo attenderci?, di Walter Ganapini

A Rio de Janeiro nel 1992, convocato dall’ONU, si tenne l’Earth Summit, primo vertice internazionale dedicato a condividere le informazioni circa lo stato di fatto della ‘casa comune Terra’ come base del confronto sulle strategie per fronteggiare le emergenze ambientali in atto e quelle annunciate.

Tante erano le speranze: per la prima volta si incontravano oltre 150 Stati per ragionare, sulla scorta del ‘Rapporto Bruntland’ (1987), di sostenibilità ambientale del modello di sviluppo prevalente, un’occasione emozionante di dialogo, a partire dal dotarsi di un glossario comune alla cui definizione partecipavano attori che andavano dai Governi nazionali agli scienziati fino alle Associazioni di cittadini ed imprese, con lavori preparatori da cui vennero approntati documenti e rapporti: ad esempio, le rappresentanze imprenditoriali riunite nel World Business Council for Sustainable Development (WBCSD) portarono a Rio un testo titolato ‘Changing Route’.

Nel corso di quei lavori preparatori conobbi persone che non dimenticherò mai, da Pablo Bifani dell’UNEP, operante a Nairobi e collaboratore fino all’ultimo di Salvador Allende, al Guy Bonsiepe maestro dell’ecodesign a Ulm e Florianopolis, anch’egli vicino ad Allende della cui comunicazione curava gli aspetti grafici, che incontrai tenendo con Enzo Mari una Lecture sul ‘produrre pulito prodotti puliti’ presso la Pontificia Università Cattolica di Curitiba, capitale del Paranà nominata dall’ONU “capitale ambientale dei Paesi in Via di Sviluppo”.

A Curitiba conobbi due espressioni della forte comunità ebraica della città, il Sindaco Jaime Lerner e l’urbanista Jonas Rabinovitch poi chiamato dall’ONU a New York. Lerner viveva la straordinaria esperienza di avere pianificato, come tecnico, e poi realizzato, da Sindaco (con l’intermezzo del carcere durante la dittatura militare), un grande progetto di sostenibilità urbana.

Curitiba non vive la piaga delle favelas, ha il più alto tasso di riciclaggio dei rifiuti in Brasile, la migliore intermodalità nel trasporto pubblico, una buona qualità dell’aria: le multinazionali che vi si sono trasferite dall’infernale San Paolo hanno dovuto rispettare, lì, i parametri ambientali in vigore nei propri paesi/casa-madre.

Colpiva percepire il potenziale innovativo di una realtà metropolitana brasiliana di quasi 2 milioni di abitanti; d’altro canto era un momento importante della vita di quel grande Paese, che in vista del Summit aveva visto Ministri dell’Ambiente della statura di Goldemberg e Lutzenberger (quest’ultimo purtroppo poi ‘dimissionato’ dal Presidente Collor per l’impegno con cui si batteva assieme alle popolazioni indigene contro la deforestazione nel Bacino delle Amazzoni).

Frutti positivi del Summit di Rio furono le Convenzioni che recavano le priorità, dal ‘buco nell’Ozono’ al Cambiamento Climatico, dalla riduzione delle emissioni di origine antropica alla tutela della Biodiversità.

Quello che venne formalizzato, purtroppo, non divenne percorso celere e cadenzato assumendo impegni cogenti e sanzionabili da parte della comunità internazionale.

Stante la valenza comunque così innovativa dell’evento, si confidava che le COP (Conferenze delle Parti) che da Rio originarono potessero costituire lo strumento operativo efficace per dare concreta attuazione a politiche utili per risolvere i nodi indicati come prioritari dalle Convenzioni.

Così non fu: prese avvio un defatigante ripetersi di incontri, anno dopo anno, da cui risultava evidente come il sistema di potere della globalizzazione deregolata non intendesse assumere come priorità la sfida della qualità ambientale dello sviluppo.

L’inazione e gli interessi fossili che la perseguivano prevalsero, mentre il clima si avviava ad un cambiamento irreversibile dando primi segnali drammatici di quegli eventi estremi con cui oggi siamo costretti a convivere.

Gli allarmi scientifici già due decenni fa indicavano in 400 ppm C02 la soglia oltre la quale il cambiamento climatico sarebbe divenuto irreversibile, limite oggi raggiunto e superato: siamo a quasi 415 ppm CO2 e la scienza (e l’UN-IPCC) ci dice che a 450 ppm diviene reale il ‘rischio di estinzione della specie umana’.

Allora come ai tempi di Rio, però, più della metà del PIL mondiale è generato dal controllo delle fonti fossili: chi lo detiene condiziona modelli culturali, politica, informazione e reagisce alimentando violenza contro chi si oppone, prezzolando ‘negazionisti’ e investendo in ‘greenwashing’ per rallentare ogni innovazione attraverso l’induzione di ‘inactivism’.

Quei potentati non hanno alcuna attitudine a cedere bonariamente questo potere, ma il cambiamento di rotta va imposto, come oggi chiedono con forza i giovani ‘FridaysForFuture’: ne va della sopravvivenza dell’Umanità.

Se non si cambia, lo scenario imposto dai signori della finanza tossica da globalizzazione deregolata è quello ben sintetizzato qui:

Il vero passo avanti rispetto al tradimento delle speranze di Rio’92 avviene nel 2015 con il dono che Papa Francesco ha fatto a tutti noi con la ‘Laudato Sì’ e, a seguire, con la determinazione della Ministra francese alla Ecologia, Ségolène Royal che ha portato ad approvare l’Accordo di Parigi a chiusura di COP 21, che dopo la frustrante esperienza dei ‘Protocolli di Kyoto’ portò più di 180 Paesi a siglare finalmente impegni con carattere di cogenza.

Frutto della chiamata da parte dell’Enciclica e del susseguente Accordo di Parigi è la ‘Agenda 2030’ delle Nazioni Unite che indica puntualmente il da farsi attraverso i suoi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, da conseguire entro il 2030.

Come Francesco denuncia, gli effetti più gravi della Crisi Climatica ricadono su chi ne ha la minore colpa, persone e comunità che vivono nelle aree di povertà e disuguaglianza, ingiustizia spaventosa che genera la sofferenza dei migranti climatici.

Ignobile fu la scelta di Trump di fare uscire dal ‘Paris Agreement’ gli Stati Uniti, maggior produttore mondiale di ‘gas serra’, vulnus sanato da Biden ripristinando la scelta dell’Obama ‘There is not Planet B’: enormi resistenze a perseguire la scelta di defossilizzare economia e società vengono da Paesi come il Brasile di Bolsonaro, e difficoltà rilevanti, pur a fronte di dichiarazioni di impegno, si registrano in grandi emettitori di CO2 come Cina, India, Russia, Australia.

L’Europa, che pesa per il 9% come generatrice di gas climalteranti, è l’unica area che negli ultimi anni ha visto stabilizzare e parzialmente diminuire le proprie emissioni:

grande è oggi l’attesa per gli impegni indicati dal Green Deal dell’UE.

Urgono celeri decisioni per modificare modelli di produzione, mobilità, vita: abbiamo pochi anni per provare ad evitare il limite delle 450 ppm di CO2 e contenere aumenti di temperatura globale tra +1,5°C e +2°C”, ma vi è chi si oppone, come già riferito.

Ora si è in vista della COP26 di Glasgow, dove i Paesi che hanno firmato l’Accordo di Parigi devono presentare le prossime iterazioni dei loro ‘contributi determinati a livello nazionale’ (NDC) sulle emissioni, redatti per la prima volta nel 2015, che vanno rivisti con obiettivi più ambiziosi per il 2030 e strategie a lungo termine che dicano come e quando si arriverà ‘emissioni nette zero’.

La pandemia da COVID-19 ha reso complesso il lavoro preparatorio di una COP 26 che pare avere valenza primariamente tecnica, comunque cartina di tornasole dei frutti attesi dell’Accordo di Parigi su alcuni temi in particolare:

– Ambizione climatica

Si attendono NDC più ambiziosi: entro fine 2020 si registrano 48 nuovi NDC mentre nel 2021 è pervenuto quello degli Stati Uniti, che indica per il 2030 emissioni ridotte del 50-52% rispetto a quelle 2005.

Gli NDC a Luglio 2021 coprono il 59% delle parti dell’Accordo di Parigi, per il 49% delle emissioni globali di gas serra, indicandone una diminuzione del 12% che però porterebbe a un aumento della temperatura di 2,7°C entro fine secolo. secolo. Alcuni dei principali paesi emettitori, tra cui Australia, Cina e India, devono ancora presentare i nuovi impegni sulla riduzione delle emissioni reali eque, ambiziose e urgenti, coerente con la traiettoria per l’obiettivo +1,5°C.

C’è poi la questione dei tempi comuni di durata degli NDC delineati a Giugno 2021 come scenari a 5 anni, 10 anni, 5+5 anni e diversi tempi per i paesi sviluppati e in via di sviluppo.

– Finanza climatica

Dieci anni fa, i paesi sviluppati si sono impegnati a fornire o mobilitare 100 miliardi $/anno entro il 2020, ma OCSE mostra al 2019 erogati 79,6 miliardi $ (livello del 2018): va chiarita la gestione del Santiago Network ‘Loss&Damage’.

Alla COP25 di Madrid, il Gruppo Africano e la Cina dichiararono separatamente di voler rifiutare l’accordo sulle priorità dei paesi sviluppati (in particolare la trasparenza) finchè gli impegni finanziari non fossero stati rispettati.

L’UE ha annunciato che aumenterà il proprio contributo di 4 miliardi di Euro, gli Stati Uniti che raddoppieranno il proprio a 11,4 miliardi $ l’anno entro il 2024.

Ci si attende che Svezia, Norvegia, Spagna e Italia raddoppino il proprio impegno finanziario nel 2025, così come si chiede che Francia, Giappone e Nuova Zelanda aumentino i loro stanziamenti, ritenuti inadeguati.

– Adattamento

I paesi in via di sviluppo, in particolare il Gruppo Africano, sostengono da tempo che l’adattamento dovrebbe ricevere considerazione e finanziamento pari a quelli della mitigazione, mentre i finanziamenti per il clima vanno prevalentemente a riduzione delle emissioni piuttosto che a promuovere resilienza al cambiamento climatico.

– Mercati del Carbonio

Il Regolamento inerente l’Accordo di Parigi, redatto a Katowice nel 2018, non indica un terreno comune sull’articolo 6 su questioni che regolano il commercio di risultati di mitigazione trasferibili a livello internazionale, nuovi meccanismi di mercato e un contesto per approcci non basati sul mercato.

– UNFCCC

Per l’Accordo di Parigi, ogni cinque anni le parti elaborano un “inventario globale” dei progressi in materia di mitigazione, adattamento e fornitura di sostegno ai paesi in via di sviluppo.

Ora si attendono i risultati della Conferenza di Glasgow che ingloba:

-la 26a riunione della Conferenza delle parti (COP26) dell’UNFCCC,

-la 16a riunione della Conferenza delle parti che funge da riunione delle parti del Protocollo di Kyoto, CMP 16),

-la 3a riunione della Conferenza delle parti che funge da riunione delle parti dell’Accordo di Parigi (CMA3),

-riunioni dell’organo sussidiario per la consulenza scientifica e tecnologica e dell’organo sussidiario per l’attuazione.

Grande è stata in questi mesi l’emozione per vedere emergere il protagonismo di milioni di giovani impegnati nella battaglia per il loro futuro.

Glasgow ne tradirà le aspettative?

Se dovessimo rispondere guardando a come la politica gestisce la questione in Italia, la risposta dovrebbe essere ‘sì’.

Per essere generativi, però, dobbiamo coltivare speranza.

di Walter Ganapini, membro onorario Comitato scientifico dell’Agenzia Europea dell’Ambiente

L’ultimo articolo di Ganapini “L’Omnia in Mensura et in Numero et in Pondere” sia base per governare PNRR e Transizione