Un recente seminario su “Finanza Etica ed Ecologia Integrale” promosso dal Vicario del Papa Cardinale Mauro Gambetti e dalla Presidente di Bancaetica Anna Fasano mi ha portato a ragionare del ruolo che compete alle Tecnologie Appropriate lungo il percorso della necessaria transizione. Ho colto nelle parole dei promotori e negli interventi, da Caritas e Comboniani a Comunità di dialogo interreligioso, volontà di operare con attitudine generativa di cura e custodia della casa comune Terra nel tempo delle crisi sistemiche che opprimono l’Umanità, dalla bellica alla finanziaria-industriale, dalla pandemica alla climatica.
Nel caso del cambiamento climatico, la scienza da decenni spiegava come la crisi sarebbe divenuta irreversibile una volta superata la concentrazione di 400 ppm di CO2 in aria ed oggi ammonisce circa l’oggettivo rischio di estinzione della specie umana qualora si oltrepassasse il limite delle 450 ppm a fronte di un valore attuale di 426 ppm di CO2 come indicatore climalterante misurato alla stazione di Mauna Loa, in gran parte derivanti da emissioni di attività antropiche.
In nome del profitto
All’origine della crisi sta il modello di Economia Lineare ‘take-make-waste’ dei ‘Chicago Boys’, ‘Materia Prima + Capitale + Tecnologia + Lavoro = Merce’, formula che occulta emissioni e rifiuti dei processi trasformativi in nome del massimo profitto da consumismo materialistico, ignora la natura ciclica dei fenomeni naturali ed il limite stesso di esauribilità qualitativa e quantitativa del capitale naturale in una Terra ‘sistema finito’ dove per definizione non si danno risorse infinite. Scopo del modello è indurre sempre nuovi ‘bisogni’, narrando di efficienti dispositivi ‘high-tech’ e di tecnologie produttive che di fatto offrono prodotti ad obsolescenza programmata causando danni ambientali e sanitari.
Martellanti campagne di comunicazione/disinformazione favoleggiano di disponibilità illimitata di risorse ed energia, nel contesto di una globalizzazione e di una finanza deregolate causa di povertà e disuguaglianze crescenti, in spregio al ruolo della normazione che Ricardo e Smith volevano per contenere gli ‘animal spirits’ che l’idolatria di ‘Mammona’ evoca. Queste tecnologie generano valore di scambio per trarne profitto privato e non valore d’uso per soddisfare bisogni, socializzando i costi, fino all’inquinamento su scala planetaria, sulla collettività.
A fronte delle emergenze ambientali incombenti, il Club di Roma, con il “Limits to Growth” dei Meadows del 1972, già criticava i modelli analitici settoriali incapaci d’allarme preventivo, ruolo di previsione del rischio da scienza responsabile, circa i danni della mitizzata ‘crescita senza limite’.
Era chiaro come la questione ecologica in una società a crescente complessità esigesse percorsi di transizione alla sostenibilità, ricorrendo alle nozioni di rete, flusso, bioaccumulo in luogo di “effetto puntuale” e di “qualità dello sviluppo” in luogo di “crescita quantitativa”, per governare la rete di flussi di materia, energia, informazione che sottendono gli insediamenti antropici.
Transizione, lettura sistemica dei fenomeni
Nello straordinario 2015 della ‘Laudato Sì’, del ‘Paris Agreement’ e dell’Agenda 2030 dell’ONU emerse la necessità della lettura sistemica dei fenomeni per elaborare scenari di sviluppo e redigerne bilanci di flusso di materia ed energia (ed economico-finanziari ad essi correlati) in base ai quali calcolare efficienza e rendimento dei diversi modi d’uso delle risorse finite, cicliche, rinnovabili e prendere decisioni orientate ad uno sviluppo verso la sostenibilità, il cui successo operativo esigeva ricorso alle BAT (Migliori Tecnologie Disponibili), grazie anche ad investimenti di Finanza Etica.
Nasce così, in coerenza con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) individuati dalla Agenda 2030 ONU e necessari per la transizione, la definizione di Economia Circolare, pensata per auto-rigenerarsi, in quanto consapevole del limite di finitezza ed esauribilità qualitativa e quantitativa del capitale naturale, e per minimizzare le emissioni da estrazione di materie prime e loro trasformazione in merci massimizzando il recupero di materia, con obiettivo conservativo di rallentare velocità di estrazione dall’ambiente di materie prime scarse ed energeticamente costose, la cui trasformazione in merci generi residui/metaboliti tossici e pericolosi per ambiente e salute.
La lettura sistemica dei fenomeni, basata su ‘Best Needed Information’, li studia dalla scala locale alla globale con analisi statistica, input/output, di processo allo scopo di modellizzare e connettere i flussi/cicli di risorse che sottendono l’agire antropico visto come ‘insieme unitario’, non come ‘frammento’, per conseguirne il governo sostenibile.
Di cosa ha bisogno la transizione?
L’obiettivo Economia Circolare richiede la rivisitazione delle norme vigenti, per promuovere ad esempio riciclo di rifiuti a partire da quelli che contengono materiali essenziali per le nuove tecnologie (es. Terre Rare per Information Technologies, Artificial Intelligence, accumulo elettrico), dismissione di composti chimici pericolosi (come i perfluoroalchilici-PFAS), riduzione dell’uso di pesticidi in agricoltura e di antibiotici negli allevamenti, introduzione di standard più severi per la qualità dell’aria come raccomandato dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, contrasto alla deforestazione, promuovendo protezione delle piante e adottando nuove norme per evitare acquisto di beni e materie prime che derivino da sfruttamento illegale delle foreste.
La transizione necessitata da modelli dissipativi a strategie conservative di sviluppo pone con urgenza il problema di adeguare normative, procedure e strumenti di controllo in vista di una maggior efficacia operativa degli apparati competenti in materia di gestione delle risorse e governo dello sviluppo, applicando metodi di valutazione preventiva di piani e progetti a livello strutturale ed infrastrutturale:
- valutazione di impatto ambientale (environmental impact assessment);
- valutazione del rischio (risk assessment);
- valutazione della tecnologia (technology assessment).
Nel campo della ‘valutazione della tecnologia’, le principali esperienze sono state condotte nell’ambito di competenza dell’US-OTA (Office of Technology Assessment), struttura federale di valutazione dell’interfaccia tra strategie di sviluppo industriale e ricettività dell’ambiente socio-economico interessato allo scopo di ricercare e acquisire consenso sociale alle opzioni di sviluppo proposte, pur nell’incertezza circa affidabilità quantitativa dei risultati ottenuti.
Abbandonare approcci sostanzialmente illuministici e scientisti
Si è così constatato che neppure la disponibilità della migliore informazione sia sufficiente, in termini meccanicistici, a risolvere il problema decisionale, palesando l’urgenza di abbandonare approcci sostanzialmente illuministici e scientisti per arrivare a richiedere contributi a diverse discipline, fino alle scienze sociali (antropologia, antropologia culturale, psicologia sociale, sociologia), al fine di risalire ai determinanti alla base dei processi decisionali, aprendosi al «comparative assessment» delle metodologie al fine di sperimentare modelli formali ed approcci quantitativi univoci di “integrated assessment”.
Quando la tecnologia è appropriata
Emerge il tema ‘Tecnologia Appropriata’, non più ‘Hard-, Soft-, Mild-, Intermediate Technology’. In accezione ampia, la tecnologia come soluzione ad un bisogno umano che nasce dalla simultanea compresenza di uomini, attrezzature impiegate, ambiente naturale, organizzazione produttiva, può definirsi ‘appropriata’ socialmente se migliora le condizioni di vita delle persone, economicamente se usa in maniera efficiente le risorse del pianeta per produzione locale a bassa intensità energetica di beni e servizi necessari, durevoli, biodegradabili, con valore d’uso superiore al valore di scambio, ecologicamente se rispetta gli equilibri della natura, politicamente se decentra il governo della cosa pubblica e promuove approcci partecipativi.
Una Tecnologia Appropriata può/deve integrare strumenti e macchine provenienti dall’economia industriale tutelando sempre indipendenza economica, democrazia politica e coesione sociale. Mentre il turbocapitalismo dominante spinge l’Umanità verso la catastrofe ecologica della Terra casa comune e aggrava alienazione dal nostro stesso lavoro, da noi stessi, dagli altri e dalla natura, serve una nuova economia, per ridare centralità a persona e relazioni umane chiamando all’impegno per la Transizione comunità, imprese responsabili e discipline scientifiche.
Ciò ancor più nel momento in cui si verifica come le conquiste culturali e normative di decenni di impegno per il cambiamento, dal disegno di un vero Green Deal alla introduzione di criteri ESG nella governance di sistemi economici e finanziari, vengono fatte arretrare da Dottori Stranamore in preda a sbornia autodistruttiva da moltiplicazione degli effetti devastanti delle crisi sistemiche, con strategie negazioniste, di greenwashing, di induzione di inactivism a livello delle istituzioni, di abuso di innovazioni sin qui deregolate quali la Artificial Intelligence.
Esperienze di leadership italiana
Ecco che torna conto di raccontare esperienze di leadership italiana in Tecnologie Appropriate, patrimonio da valorizzare citando come la storia recente del nostro Paese abbia visto momenti di una caratura del tutto diversa da quelli che oggi ci travagliano nel pieno di terribili crisi globali. In tema di Tecnologie Appropriate non si deve consentire l’oblio di quanto accadde tra fine ’70 e inizi ’90, con la nascita di una ‘Scuola italiana’ grazie a programmi di Ricerca Finalizzata che videro l’engagement attorno ad un tavolo comune di accademia e sistema industriale ed alle azioni di Cooperazione allo Sviluppo a seguire, grazie a uomini dello standing di Umberto Colombo, Marcello Colitti, G.B. Zorzoli ed altri ancora: si menziona qui sinteticamente il frutto di quella stagione in termini di metodologie sistemiche, analitiche e progettuali, e di esperienze attuative.
La storia: CNR InterProgetto ‘Aree a Risorse Limitate’ (ARL)
La scuola francese di Ecologia Rurale, Odum e Giorgio Nebbia insegnavano come l’equilibrio di un ecosistema fosse sotteso da una fitta rete di flussi energetici e materiali diffusi e a bassa intensità, caratteri pesantemente perturbati dal modello insediativo urbano e produttivo prevalente. Vennero selezionati programmi che mettessero a fuoco nuovi modi di lettura sistemica dei flussi di materia ed energia, base per pianificare ecosviluppo in aree marginalizzate, insulari e montane con risorse sottoutilizzate e crescente propensione al degrado, da un modello di sviluppo che privilegiava la concentrazione di insediamenti strutturali e infrastrutturali in aree più favorite di pianura e collina, sovrautilizzandone le risorse con costi ambientali ed energetici sempre più elevati.
Ambiti di ricerca furono isole, perché caratterizzate da limiti fisici che facilitavano l’indagine input/output circa quantità e qualità dei flussi citati, e valli appenniniche, per verificare l’impatto della marginalizzazione su demografia, economia, tecnologie, cicli produttivi:
- Pantelleria (Università di Palermo – Federico Butera, Gianni Silvestrini, Gianfranco Rizzo, Giorgio Beccali);
- Burano (IUAV Venezia – Sergio Los, Natasha Pulitzer, Gianni Scudo);
- Val Fontanabuona (Università di Genova – Corrado Ratto, Umberto Bianchi);
- Val d’Enza (CRPA Reggio Emilia – Walter Ganapini – ERVET Bologna – Giancarlo Omoboni).
Risulta impossibile dare qui conto dei risultati conseguiti, davvero importanti ed ancor oggi attuali tanto da consigliare la lettura degli elaborati a chiunque interessato: i ricercatori citati furono il nucleo attorno a cui crebbe la ‘Scuola italiana’ di analisi e progettazione ecoenergetica prima citata. Torna conto rammentare come allora ritrovammo traccia di Illich e della sua ‘convivialità’ grazie a Franco La Cecla e di Dossetti grazie a Osvaldo Piacentini, grande urbanista e suo allievo prediletto.
CNR-ENEA ‘Progetto Finalizzato Energetica’ (PFE)
Tra 1976 e 1984 la ‘Scuola italiana’ conseguì risultati scientifici tali da trainare l’industria nazionale verso una innovazione fatta di Tecnologie Appropriate cariche di futuro. Il Centro Ricerche FIAT di Businaro e Palazzetti sviluppò dai piccoli cogeneratori Totem adottati da Maurizio Pallante Assessore a Rivoli al miniidroelettrico con turbine Pelton di Savigliano, dalla fermentazione di rifiuti organici a Cambiano alle migliori pale eoliche del tempo, quelle Fiat Avio. La Riva Calzoni conseguì primazia in campo eolico adattando i propri apparati oleodinamici per periscopi di sottomarini a divenire organo di trasmissione del moto a bassissima perdita di carico dal fuoco della turbina eolica all’alternatore per la generazione elettrica a piè di impianto.
L’EniRicerche di Cernia progettò da digestori per biomasse ai processi Eurosolar di produzione di Silicio monocristallino in ambito Agip Nucleare; in ENI – Direzione Generale Pianificazione Colitti, Curcio, Nardelli, Forquet facevano avanzare i metodi della Economia Energetica e in Agip Petroli Gabriella Pistone Nardelli si occupava attivamente di architettura bioclimatica. ENEL con CISE e Ansaldo con CESEN progettavano nuovi schemi energetici, da cogenerazione a teleriscaldamento e impianti a fonti rinnovabili e geotermiche per Paesi in Via di Sviluppo.
Il mio CRPA diventava riferimento per i processi fermentativi aerobici ed anaerobici di rifiuti e biomasse, di fitodepurazione, di analisi energetica del sistema agroalimentare.
Cercammo di valorizzare anche piccole e medie imprese, come mi capitò di fare nel caso degli impianti solari termici ad aria CRPA per l’essiccazione di foraggi negli allevamenti zootecnici oppure promuovendo la Tozzi&Bardi di Grosseto, azienda artigianale costruttrice delle pale eoliche Vivarelli per il pompaggio meccanico di acqua che ornano ancora molti paesaggi rurali in Italia centrale: scoprii che il principale acquirente di quelle pale erano strutture missionarie in Africa.
I progetti in Burkina Faso
Ratto, Scudo e i loro allievi sviluppavano dai metodi di diagnosi energetica degli edifici alla progettazione di Tecnologie Appropriate nella costruzione di strutture, recuperando la cultura delle ‘torri del vento’ e forme di ‘architettura vernacolare’, come quando in Politecnico a Milano Scudo realizzò in mattoni crudi strutture coniche opportunamente finestrate per circolazione d’aria di raffrescamento, strutture appunto appropriate per realtà di molte comunità in Africa.
Con Gianni Scudo ed Ettore Tibaldi progettammo per il Burkina Faso, su richiesta dell’amico Fabrizio Caròla, maestro della autocostruzione manuale con materiali forniti dalla terra, una struttura d’orto in cui produrre peperoni e pomodori, al fine di coprire la carenza di Vitamina B12 in quella comunità: un muretto perimetrale doveva proteggere dall’avanzare del deserto le parcelle coltivate, coperte da ‘ombrelli’ apribili in caso di pioggia, compluvi che scaricassero la precipitazione di una risorsa così scarsa direttamente nelle canalette tra parcella e parcella. Per dare continuità ai contenuti scientifici e operativi del PFE promossi come ricercatore ENEA il Corso ‘Tecnologia e Ambiente’ congiuntamente al Politecnico di Milano, che si inaugurò con lezioni introduttive di Gianni Vattimo e mia.
Ministero Affari Esteri, ‘Cooperazione allo Sviluppo’ e transizione
Nella seconda metà ’80 ero, con Federico Butera, tra i docenti che il Ministero degli Affari Esteri (MAE) incaricava, nell’ambito dei propri Programmi di Cooperazione allo Sviluppo, di tenere Corsi in materia ambientale ed energetica per quadri tecnici di Paesi in Via di Sviluppo (PVS). Ho già detto di quanto urgente fosse abbandonare approcci illuministici e scientisti nel valutare una Tecnologia come Appropriata, richiedendo i contributi di diverse discipline, fino alle scienze sociali (antropologia, antropologia culturale, psicologia sociale, sociologia) e giuridiche, per risalire ai determinanti alla base dei processi decisionali lungo il cammino verso l’“integrated assessment”.
Venivo dall’esperienza di Tutor del primo Corso ‘Energy and Environmental Resources Management’ organizzato da UN-ILO presso il proprio Center for Vocational Training di Torino: quattro mesi densi, sul piano tecnico-scientifico ma soprattutto culturale per il costante confronto con quaranta persone di valore provenienti da ogni Continente.
Sedi dei Corsi MAE erano Conphoebus-ENEL a Catania, Finmeccanica-IRI alle porte di Roma e Sogesta-ENI a Urbino: il confronto con centinaia di tecnici e quadri soprattutto di provenienza africana, per quanto episodico rispetto all’esperienza torinese, consolidò la volontà di chiamare a contaminarsi cultori di ogni disciplina sul tema ‘quali tecnologie per quale cooperazione?’ Apprendemmo dai corsisti del drammatico esito dell’arrivo lungo le coste della Mauritania di una cooperazione giapponese che ‘donò’ impianti frigoriferi a popolazione di pescatori da sempre nomadi, fino a stanzializzarli asservendoli a supporto della pesca industriale dei ‘donatori’.
Al primo guasto delle energivore macchine frigorifere nessuno seppe porre rimedio, perché quella ‘cooperazione tecnologica’ non prevedeva né formazione né investimenti manutentivi: in pochi anni a quelle popolazioni toccò la terribile sorte riservata da ogni colonizzatore ai nativi, fino alla dispersione di pratiche appropriate trasmesse nei secoli.
Durante le lezioni emerse la complessità intrinseca al progettare vera cooperazione allo sviluppo.
Deforestazione
Se ne darà sintetica rappresentazione ragionando del come promuovere comportamenti utili a mitigare gli effetti della deforestazione in terra africana, prima di quella causata da investimenti fossili ingenti per sottrarre ancor più risorse minerarie ed energetiche a quei popoli e del manifestarsi di quella crisi climatica che oggi aggrava ogni giorno di più, assieme ai terribili conflitti in essere nel Continente, il fenomeno della migrazione climatica.
E’ noto il contributo alla deforestazione derivante dalla secolare pratica di abbattere alberi per cucinare cibo su focolari solo costituiti da tre pietre, con un rendimento della combustione infinitamente basso: iniziò da questa constatazione la ricerca di soluzioni tecnologiche appropriate.
Prese corpo il progetto di ‘ìmproved oven’, semplici stufe con un rendimento estremamente più alto dei focolari in pietra e dunque capaci di ridurre significativamente pratiche di deforestazione. Per evitare i problemi di reperimento e lavorazione di materiali metallici per produrle, la scelta che parve più appropriata alla luce del ‘technology assessment’ fu quella di autoproduzioni locali di quelle stufe in terracotta, con materiali locali e processi produttivi ben padroneggiati da sempre.
In molte aree in cui si avviò la sperimentazione, però, i risultati non furono positivi: apprendemmo le cause del fallimento da tirocinanti incontrate durante le lezioni.
La stufa nella cultura tribale
Molte culture tribali in cui vige il regime matriarcale, la giovane sposa segue il marito nella capanna di famiglia, dove il cibo viene cucinato sopra le tre pietre a suo tempo scelte dalla madre. Quando alla sposa viene riconosciuto un ruolo più importante, le viene concesso di scegliersi tre nuove pietre che diverranno il suo focolare, uguale a nessun altro, simbolo identitario della sposa. Per quanto prodotta manualmente da artigiani locali con materiali locali, la stufa migliorata non potrà mai differenziarsi dalle altre al punto di assumere il valore simbolico sopra descritto.
Altro caso di insuccesso si registrò in Zimbabwe: là le stufe migliorate erano costituite da barili metallici di recupero, con griglia sotto cui si depositassero le ceneri prodotte dalla combustione e tubo per espellere i fumi, camino che incrementava il rendimento energetico dell’operazione. Quando se ne avviò la diffusione nelle capanne di diversi villaggi, si era convinti che avrebbero apprezzato l’apparato con camino poiché espelleva dall’interno della capanna i fumi dei focolari in pietra, migliorando la vivibilità dell’ambiente domestico.
Così non fu: i camini vennero rigettati perché i fumi all’interno della capanna erano considerati necessari per ridurre la presenza di insetti sgraditi, quando non nocivi.
La necessità di un esperto antropologo per la transizione
Entrambe i casi descritti ci dicono quanti errori progettuali si sarebbero evitati se della équipe tecnica avesse fatto pare un antropologo esperto delle culture del territorio o, ancor meglio, si fosse ricorsi a pratiche partecipative di co-progettazione con le comunità su cui si intendeva intervenire con azione di cooperazione allo sviluppo.
Alla luce di questi ‘apprendimenti sul campo’, organizzai presso la FAST un seminario della ‘Scuola italiana’ di Tecnologie Appropriate, da cui emersero considerazioni che portammo con Aldo Bonomi come Progetto Eureta in ambito EuroPerspective, programma strategico europeo allora diretto da Riccardo Petrella (“Eureta” Gennaio 1988, riportata in W. Ganapini, “Ambiente made in Italy”, Aliberti Ed., 2004)
I tempi, però, volgevano verso lidi meno ‘smart’ e si approssimava la stagione che bloccò il grande potenziale italiano di leadership sui mercati internazionali in tema di efficienza energetica, fonti rinnovabili, innovative tecnologie ambientali.
I finanziamenti che il Governo dichiarava di voler dedicare come incentivi CIP6 all’attuazione di quanto previsto da nuove importanti leggi sull’uso razionale dell’energia e a favore delle rinnovabili vennero dispersi da una ‘manina’ che deviò le risorse verso tre gruppi petroliferi privati con la scusa di gassificare le morchie tossiche sedimentate sul fondo del serbatoiame di stoccaggio presso le raffinerie: al presunto ‘prodotto della gassificazione’ si garantiva la qualifica di fonte rinnovabile.
di Walter Ganapini, membro onorario Comitato scientifico dell’Agenzia Europea dell’Ambiente